BACK
DEPORTATO POLITICO

BARONCINI ADELCHI

Nato il 4 novembre 1889 a Conselice (RA)
Residente a Bologna (BO)
Arrestato il 24 febbraio 1944 a Bologna (BO)
Luoghi di detenzione: carcere di Bologna, campo di Fossoli, campo di Bolzano
Deportato a Mauthausen
Non è sopravvissuto alla deportazione
nessun numero assegnato

Baroncini Adelchi, di Primo e Silvia Caravita, nato il 4 novembre 1889 a Conselice (RA). Residente a Bologna, in via Rimesse n. 25. Coniugato con Teresa Benini, padre di tre figlie: Jole, nata nel 1917, Angelina, detta Lina, nata nel 1923 e Nella, nata nel 1925.

Dopo essersi trasferito con la famiglia da Imola a Bologna, si era impiegato come operaio meccanico alla O.A.R.E., Officina Automobilistica Riparazioni Esercito.

Di idee socialiste fin dal 1920, dall’autunno 1943 aveva iniziato a collaborare anche con alcuni attivisti comunisti, in particolare con i fratelli Umberto e Vittorio Ghini, che coordinavano anche l’attività di stamperia e di staffette in cui spontaneamente avevano voluto impegnarsi con grande entusiasmo le tre figlie. L’abitazione della famiglia in via Rimesse si era così trasformata in un centro stampa segreto di pubblicazioni e volantini politici antifascisti, dove le sorelle Baroncini componevano o copiavano con la macchina da scrivere articoli e volantini che venivano poi ciclostilate o stampate altrove. dove era in contatto con i componenti di un comitato antifascista clandestino.

Racconteranno Angelina e Nella in una testimonianza rilasciata insieme il 18 settembre 1976: «Noi facevamo lavoro di stampa – ricorda Nella - "L’Unità" mi ricordo che in principio non conoscevamo neanche cos’era. Poi c’era "Noi donne", cominciava allora, coi Gruppi di difesa della donna, e "La lotta", settimanale bolognese. Battevamo a macchina dei pezzi che i compagni preparavano da mettere, per esempio, sulla "Unità"». Aggiunge Angelina: «Andavamo anche a portare del materiale di stampa nelle basi intorno: Medicina, Imola, Ponte Ronca», spingendosi talvolta anche a Casalecchio.1

Proprio per non mettere in pericolo i famigliari e l’attività segreta svolta nella in casa, Adelchi aveva cercato di non attirare troppo l’attenzione nei contatti che aveva con il comitato antifascista clandestino attivo alla O.A.R.E dove lavorava, ma inutilmente.

A causa della spiata di un infiltrato in quell’organismo il 24 febbraio 1944 Adelchi è arrestato dalla Gestapo al suo arrivo in officina insieme ad altri operai, tra i quali anche Antonio Celin e Armando Mazzoli, tutti accusati di sabotare la produzione bellica. Dapprima fu obbligato ad accompagnare gli agenti tedeschi ad assistere a perquisizioni ed arresti di altri presunti membri del gruppo antifascista - saranno una ventina in tutto -, poi fu condotto dai militi SS alla sua abitazione.

«Quella mattina – racconterà Nella - per combinazione, ci trovavamo in casa tutte e quattro, noi donne. Erano le 8 e tre quarti di mattina, del 24 febbraio; le date me le ricordo bene. Io stavo mangiando il caffelatte e avevo già il paletot addosso per andare in ufficio. La Jole aveva l’azienda sfollata in un paese qui intorno, e di solito a quell’ora lì era già via: capitò che quella mattina non andava a lavorare ed era a casa. Prosegue Angelina: «Io ero ancora a letto perché in quel periodo ero rimasta a casa da lavorare. Così di noi tre sorelle ero quella che lavorava più di tutte a battere a macchina, mentre loro di giorno erano fuori e battevano a macchina solo alla sera. A un tratto suonarono, e come [Nella ha] aperto la porta, sentii la parola: “Perquisizione!” (…) D’istinto, mi sono buttata giù dal letto in fretta, ho preso il pacco di manifestini che c’era sulla credenza e me li sono infilati nella camicia da notte. Ma loro hanno visto la mossa». Ancora Nella: «Fui io ad andare a aprire la porta. Come vidi mio padre in mezzo a due SS, son corsa in casa, naturalmente: però stavamo al primo piano e non c’erano molte scale da fare».2

Le sorelle ricordano l’ingresso in casa di due SS accompagnate da un agente in borghese che parla italiano, e cominciano a buttare tutto all’aria; cercano soprattutto dei ciclostili, e picchiano Adelchi davanti ai famigliari per farsi dare indicazioni. Troveranno tre macchine da scrivere, un pacco di manifestini e della carta bianca. Inoltre una carta di dentità già scolorinata intestata a Vittorio Ghini, che i tedeschi riconoscono. Altri documenti e tessere false nascoste dietro un mobile non vengono scoperte.

Tutti i cinque membri della famiglia Baroncini sono tratti in arresto e portati al comando bolognese della Gestapo, in quel momento ancora in viale Risorgimento, dove sono sottoposti ad un primo sommario interrogatorio (così come gli altri arrestati, poi in gran parte rilasciati). Nella, Jole e la madre sono condotti poco dopo al carcere cittadino di San Giovanni in Monte, mentre Adelchi e la figlia Angelina, che tenta di addossarsi la colpa anche per le altre sorelle, rimangono nelle celle del comando SS, dove per quasi un mese saranno sottoposti ad ulteriori interrogatori conditi da pestaggi e torture, soprattutto per Adelchi.

Ricorderà Angelina: «Cominciarono gli interrogatori, giorno e notte. Un po’ mio padre, un po’ io, poi gli altri. Eravamo nelle cantine, isolati, e ci venivano a prendere poco alla volta. Dalle cantine dove eravamo, si sentiva chi venivano a prendere e chi ritornava. Una volta che mio padre lo torturarono per tutta la notte, e quello che gli fecero lo saprà soltanto lui, io ne so solo un pochino, e lo buttarono giù, a ruzzoloni, io lo sentii, mentre cadeva a ruzzoloni, e si lamentava; io ero nella cantina chiusa, non vedevo niente, però sentivo: la voce era alterata, non era la sua, ma io sapevo che era lui. E loro mi vennero ad aprire la cantina, mi presero e mi portarono davanti a lui; fra le altre cantine avevano un bugigattolo di punizione, piccolo che non si poteva starci né sdraiati per lungo né dritti (...): era là buttato in terra che si lamentava, ma non conosceva, non vedeva neanche, perché aveva la faccia tumefatta, e tutto il corpo. Lassù l’avevano denudato (…) l’avevano legato alle mani e ai piedi e lo tiravano su e giù con una carrucola; su e poi giù di colpo, e lo picchiavano sui genitali».3 Anche Angelina è sottoposta a percosse durante gli interrogatori, con botte sulle gambe e sulla schiena. Tenta di addossarsi la responsabilità dell’attività clandestina nella speranza di far scagionare almeno la madre, ma invano.

Il 22 marzo 1944 anche Adelchi e Angelina sono consegnati al carcere di San Giovanni in Monte, dove Adelchi è registrato con la matricola 10091 del settore maschile, Angelina con la matricola 1970 del settore femminile, gestito dalle suore, dove però rimarrà isolata senza incontrare mai la madre e le altre due sorelle.

La famiglia si riunirà di nuovo insieme solo il 6 maggio 1944, in occasione del trasferimento in camion al campo di concentramento e transito (Durchgangslager, DuLag) di Fossoli di Carpi, insieme ad un gruppo di altri detenuti politici, tra i quali alcuni degli operai dell’O.A.R.E. In quel campo rimarranno quasi tre mesi.

Continua il racconto di Nella: «Non era un campo di lavoro e di solito non si faceva niente; delle volte prendevano noi ragazze a pulire le camere delle SS , o a lavorare in cucina. Io sono stata in cucina, Le camere delle SS erano fuori della rete, ma in una baracca come le nostre. Gli uomini facevano altri lavori: c’erano, per esempio, gruppi di muratori. Venivamo dal carcere, e ci sembrava di star meglio: un po' perché non c’era più il pericolo degli interrogatori, che erano finiti, un po' perché stavamo all’aperto e si era in molti. Si cominciarono a fare dei gruppi, e anche se il reparto uomini e il reparto donne erano separati, alla sera ci si trovava alla rete». Aggiunge Angelina: «Nel campo siamo state abbastanza bene. Lì arrivavano i pacchi, da fuori, e nel nostro gruppo quello che arrivava per uno era per tutti».4

Ma nei primi giorni di agosto la famiglia dovrà di nuovo dividersi, in occasione del trasferimento della funzione di campo di transito da Fossoli a Bolzano-Gries, quando nel campo emiliano avvengono le ultime selezioni, che destineranno le quattro donne Baroncini a Verona, da dove partiranno per il lager di Ravensbrueck, arrivandovi il 6 agosto, mentre Adelchi sarà trasferito al campo di transito sud-tirolese, da dove il 5 agosto sarà aggregato al primo trasporto che dal nuovo DuLag raggiungerà Mauthausen con oltre 300 prigionieri.

Nel lager austriaco, raggiunto il 7 agosto, riceve la matricola 82267 e la categoria di Schutz, con il triangolo rosso; mestiere dichiarato: meccanico.

È in seguito assegnato al sottocampo di Gusen.

Risulta deceduto il 3 gennaio 1945 nel Erholungsheim ("convalescenziario") del castello di Hartheim, presso Linz, che fungeva da luogo di eliminazione dei detenuti di Mauthausen e Dachau ormai inabili al lavoro attraverso camera gas o iniezione, nell'ambito della operazione segreta denominata in codice «14f13». La stessa struttura in precedenza aveva funzionato come una delle sedi del programma «T4» per la eliminazione segreta di civili tedeschi disabili, malati mentali o terminali. Il nome di Adelchi compare in uno degli ultimi elenchi di detenuti uccisi o deceduti in quella struttura, quando erano già iniziati i lavori per occultarne l’attività omicida svolta fino a quel momento mediante anche l’erezione di un muro davanti all’ingresso della camera a gas. Quel giorno furono 21 ad entrare nella camera a gas insieme ad Adelchi, tutti provenienti da Gusen, di cui due italiani.

Non molto tempo dopo, il 26 gennaio 1945, morirà nell'infermeria del lager di Ravensbrueck anche la moglie Teresa Benini, mentre la figlia Jole il 4 marzo 1945 sarà inviata alla camera a gas di quel campo. Solo Angelina e Nella, dei cinque componenti la famiglia, riusciranno a sopravvivere alla deportazione.

Adelchi Baroncini è stato riconosciuto dall'apposita Commissione regionale partigiano nella 7a brigata Garibaldi GAP «Gianni», con ciclo operativo dal 9 settembre 1943 al 3 gennaio 1945.

Una lapide che lo ricorda è stata apposta nel cortile del castello di Hartheim, oggi memoriale e centro di documentazione sulla "operazione eutanasia".

È ricordato nel Sacrario di piazza Nettuno a Bologna.

Il 10 gennaio 2020 una "pietra d'inciampo" per ognuno dei cinque componenti la famiglia Baroncini è stata posta davanti all'ingresso della residenza di Via Rimesse n. 25. Vedi pagina del Comune di Bologna: http://www.comune.bologna.it/pietre-inciampo

ANED – Bologna ha realizzato nel 2019 una mostra itinerante dal titolo “Non era giusto non fare niente” La resistenza della famiglia Baroncini. Mostra sulla deportazione femminile, curata da Ambra Laurenzi, di cui è stato realizzato anche un catalogo a stampa. Video della presentazione: https://www.youtube.com/watch?v=c4tg3FFDm9c

ANED – Bologna ha realizzato nel 2020 un video dal titolo “Memoria e Libertà. La famiglia Baroncini”: https://www.youtube.com/watch?v=6NOeMg5cMfk

NOTE:

1 - Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane. Giulio Einaudi ed., Torino 1978, (Lina Baroncini Roveri, Nella Baroncini Poli, pp. 235-282) p. 240

2 - Ivi, pp. 241-242

3 - Ivi, p. 243

4 - Ivi, p. 246


FONTI A STAMPA E ARCHIVISTICHE:

– Mantelli-Tranfaglia, Il libro dei deportati, vol. I, ad nomen

– Dizionario biografico degli Antifascisti di Bologna e provincia, ad nomen

– Registri matricola del carcere di San Giovanni in Monte

FONTI DIGITALI:

– ITS Digital Archive, Arolsen Archives:

1.1.26.1, 8103600. Registro dei prigionieri di Mauthausen.

https://collections.arolsen-archives.org/en/document/1279137

1.1.26.1,8117600. Decessi nello "Erholungsheim Hartheim" 11.04.1944-08.01.1945. [documento per errore recante la data 3.1.1944, in realtà 3.1.1945]

https://collections.arolsen-archives.org/en/document/1299045

Guida alla lettura della documentazione in Arolsen Archives


Rif: DEPORTATO POLITICO-2014



Informativa sui Cookie | Cookie Policy