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FUCILATO AL POLIGONO

MASIA MASSENZIO

Nato il 2 settembre 1902 a Como (CO)
Residente a Bologna (BO)
Arrestato il 3 settembre 1944 a Bologna (BO)
Luoghi di detenzione: carcere di Bologna
Fucilato il 23 settembre 1944 al Poligono di tiro
nessun numero assegnato

Masia Massenzio, «Max, Giovanni Bianchini», da Angelo e Angela Molteni, nato il 2 settembre 1902 a Como; domiciliato a Bologna. Laureato in Scienze economiche. Dirigente bancario.

Il Dizionario biografico degli Antifascisti di Bologna e provincia gli ha dedicato la dettagliata biografia che segue.

Iscritto al PRI e poi al PdA. Con Dario Barontini, Gianguido Borghese e Verenin Grazia fu uno dei massimi dirigenti della lotta di liberazione in Emilia-Romagna, oltre che un esponente

di primo piano del PdA e dellʼantifascismo italiano. Dotato di grandissima umanità e di una naturale propensione ai rapporti umani, esercitò un grande ascendente su amici e collaboratori, i quali lo amavano e lo stimavano per lʼeccezionale statura politica e la tensione morale che lo animava. Era un tecnico bancario che, agli studi di alta finanza, aveva unito, alternato e integrato quelli umanistici. Parlava correttamente tre lingue ed era un giornalista pubblicista acuto e di grande versatilità. La sua intelligenza e la cultura impressionarono profondamente, all'inizio degli anni Venti, il prof. Gino Luzzato docente nella sezione di Magistero, economia e diritto dellʼIstituto superiore di scienze economiche e commerciali di Venezia. «Nei contatti abbastanza frequenti, che incominciai ad avere con lui», ha scritto Luzzatto, «più fuori che dentro la scuola, rimasi presto colpito dalla vivezza e maturo della sua intelligenza, e soprattutto dalla larghezza dei suoi interessi culturali e dalla originalità del suo pensiero, di gran lunga superiori a quelli che di solito si notano anche nei migliori studenti [...]». A quellʼepoca, anche se appena ventenne, era già un uomo maturo, cresciuto e formatosi negli anni difficili del primo dopoguerra, dopo avere vissuto ed essere stato protagonista di una dura e tragica vicenda politico-militare, anche se non si possono escludere del tutto risvolti avventurosi, culturali e letterari. Aveva poco più di 17 anni quando fuggì dalla casa paterna per correre a Fiume e arruolarsi tra i legionari di Gabriele DʼAnnunzio. La sedizione fiumana fu, nel bene come nel male, unʼesperienza determinante per la sua vita, anche se in seguito riconobbe i limiti e soprattutto gli errori di quellʼavventura giovanile vissuta in purezza dʼintenti e con grande onestà politica. Dopo il tragico «natale di sangue» tornò a Como per completare gli studi di ragioneria. Contemporaneamente - a conferma della sua versatilità - iniziò a lavorare come disegnatore di stoffe presso una ditta tessile comasca. Nel 1923 lasciò nuovamente Como per frequentare la facoltà di Magistero a Venezia. Il soggiorno nella città lagunare rappresentò una tappa fondamentale nella sua vita perché venne a contatto e conobbe un mondo politico-culturale più ampio, più ricco e più raffinato di quello angusto e provinciale della città dove era nato e cresciuto. Il clima cosmopolita di Venezia fece il resto. Qui conobbe autorevoli esponenti del mondo antifascista con i quali e grazie ai quali rimeditò l'esperienza politica che stava vivendo in quel momento il paese, il cui sbocco inevitabile era la fine del regime democratico-liberale e l'avvento della dittatura fascista. Fu in quel periodo che - come tanti ex legionari fiumani - concluse il processo autocritico della sua pur esaltante esperienza giovanile e approdò definitivamente agli ideali democratici e antifascisti. Sull'esempio di Luzzatto e altri democratici veneziani, nel 1924 aderì alla Giovane Italia, una società segreta promossa da liberali, socialisti e repubblicani che si proponeva di ripristinare il regime democratico costituzionale. Lo stesso anno a Como costituì o ricostituì la sezione del PRI della quale fu eletto segretario. Quando la sezione venne scoperta dalla polizia fu schedato come sovversivo, ma non arrestato. Per questo potè tornare a Venezia per proseguire gli studi. Dopo la laurea, conseguita a pieni voti, rientrò a Como. In attesa di unʼoccasione di lavoro, riprese il vecchio mestiere di disegnatore di stoffe. Nel 1930 - avendo dato prova di buona condotta politica - venne radiato dall'elenco dei sovversivi. Lo stesso anno fu assunto all'Olivetti e andò prima a Catania, e poi a Milano. Seguirono anni di intensa attività professionale, ma anche politica. Dovendosi spostare da una città all'altra per motivi di lavoro, approfittava dell'opportunità per tenere i contatti tra i vari gruppi della Giovane Italia. E quando questa formazione politica si estinse - anche perché i principali dirigenti erano finiti in carcere - aderì al Movimento Giustizia e Libertà, nel quale erano confluiti ex socialisti ed ex repubblicani, oltre che i dirigenti della vecchia Italia Libera. Sempre per motivi di lavoro, compì numerosi viaggi in Asia dei quali restano ampi e dettagliati resoconti nella rivista mensile del TCI. Dopo essere stato assunto dall'Istituto internazionale delle Casse di Risparmio, iniziò a collaborare alla “Rivista delle Casse di Risparmio”. Alla fine del 1942 fu tra i fondatori del PdA, nel quale confluirono gli esponenti del Movimento di GL, i gruppi liberalsocialisti e altre formazioni politiche minori. Nello stesso anno fu richiamato alle armi e destinato all'ufficio della censura postale a Bologna. Una volta trasferitosi sotto le due Torri non ebbe difficoltà a prendere contatto con gli esponenti locali di GL, con i quali fondò la sezione bolognese del PdA. Fautore di una politica di stretta unità tra i partiti antifascisti, nel giugno 1943 divenne il rappresentante del PdA nel comitato militare del Fronte per la pace e la libertà, il primo organismo unitario del'antifascismo bolognese. Il 10 giugno 1943 venne arrestato dalla polizia, unitamente ad altri esponenti del PdA, del PSI e del MUP. La detenzione fu breve e riebbe la libertà pochi giorni dopo la fine della dittatura. Durante il breve interregno badogliano rappresentò il PdA nella redazione di “Rinascita”, il periodico clandestino del Fronte per la pace e la libertà A differenza del PRI, del PLI e degli esponenti cattolici - che si erano ritirati - il PSI, il PCI e il PdA ritenevano che la funzione del Fronte non fosse esaurita. Toccòa lui il compito di esortare le altre forze politiche a non disertare la lotta in un momento così delicato per la nazione. «Vi sono delle ore nella storia dei popoli» - scrisse nell'editoriale del primo numero di “Rinascita”, intitolato Presentazione - «in cui si sente che tutto, lʼavvenire, la vita stessa, sono in gioco. Vi sono delle ore in cui è necessario saper guardare in faccia alla realtà, tralasciando ogni preoccupazione od interesse personale per adeguarsi alle responsabilità imposte dalla situazione, ed agire sapendo che i propri atti contribuiranno ad influire sulle sorti collettive. Per la prima volta dopo un ventennio di schiavitù e d'abbiezione gli italiani si trovano sul banco di prova della storia, non più come un gregge negoziato da un tiranno, ma come un popolo libero di scegliersi il proprio destino». La strada sarà lunga e la prova difficile, - proseguiva 1o scritto, dopo avere enumerato le difficoltà - e «dobbiamo ancora dire al popolo italiano che il fondo della crisi non è stato ancora toccato. Altre ore gravi e decisive ci attendono. Siamo appena al principio della grande ondata storica che proietta il nostro come tutti gli altri paesi verso lʼignoto avvenire. Un destino rivoluzionario sta maturando in seno a tutti i popoli, compreso il nostro». Il destino rivoluzionario del popolo italiano maturò poche settimane dopo con la proclamazione dellʼarmistizio, lʼoccupazione tedesca e lʼinizio della lotta di liberazione. Divenuto responsabile del PdA per lʼEmilia-Romagna - mentre responsabile militare era Mario Jacchia, - per qualche tempo fu rappresentante del partito nel CLN. Allʼinterno del primo organismo unitario della Resistenza - al quale, in quel periodo, aderivano PCI, PSI e PdA - fu deciso sostenitore della linea politico-militare che presupponeva la lotta totale contro il nazifascismo. «Oggi» - scrisse nell'articolo di fondo, intitolato Propositi nostri, di “Orizzonti di libertà”, il “Periodico emiliano del Partito d'Azione”, da lui fondato nel marzo 1944 - «non cʼè che un modo di servire il Paese: partecipare alla lotta di liberazione nazionale. Per tutti gli italiani ancor degni di questo nome, unico criterio di moralità e ragione di vita dev'essere questa lotta, affinchè il sacrificio liberamente accettato ci riscatti da vent'anni di abiezione e dall'ultima ignominia. È col sacrificio e col sangue dei suoi figli migliori che l'Italia sarà risollevata dalla vergogna presente. È attraverso la lotta ed il sacrificio che si acquista il diritto di cittadinanza nella nuova Italia. Solo così il nostro paese ritroverà il suo onore e la sua dignità nazionale e potrà assidersi con parità di diritti nel consesso della nuova Europa». A questa lotta si dedicò completamente e, quando cadde Jacchia, assunse la responsabilità delle formazioni GL dell'Emilia-Romagna. Era lui - e fu certamente un grave errore avere accentrato nella sua persona tutte le responsabilità - il centro di ogni attività politica e militare. Era fatale che esponendosi sempre in prima persona - come in occasione del salvataggio della dotazione di radium dell'ospedale Sant'Orsola, anche se l'operazione fu portata a compimento da Mario Bastia - prima o poi la sua identità sarebbe stata scoperta dai fascisti. Pare che sia stato localizzato nel luglio 1944, anche se la polizia, anziché arrestarlo, preferì infiltrare due spie nelle fila del PdA. Erano Paolo Kesler e Ivo Zampanelli (alias Ivo Severi, alias Aquila nera), la cui fede patriottica era stata garantita da Sergio Forni, del quale si può dire che sia stato almeno incauto. In agosto - nel corso di una riunione della segreteria Alta Italia del PdA, a Milano fu invitato da Parri a non tornare a Bologna. Le regole della clandestinità imponevano un'alternanza frequente dei dirigenti politici, perché un simile lavoro «bruciava» velocemente le persone. Preferì non abbandonare i compagni di lotta. «Che cosa dunque lo aggancia, e lo impegna senza possibilità di ritirarsi indietro nella lotta antifascista?» - Si chiese Parri, in uno scritto del dopoguerra - «Chi lo ha conosciuto sa rispondere: una scintilla di fondo, una accensione morale, una ascensione a una verità, ad una certezza superiore. Un dovere, diventato profonda coscienza, lo riporta a Bologna, posto per lui del massimo rischio.».

Tornato a Bologna, è arrestato nella notte tra il 3 e il 4 settembre 1944 unitamente ad altri 22 compagni di lotta, quando le due spie fasciste ritengono di avere individuato e identificato un nucleo consistente di partigiani. Gli altri arrestati sono: Sario Bassanelli, Iolanda Benini, Enrico Bernardi, Giancarlo Canè, Orlando Canova, Sante Caselli, Giorgio Chierici, Giuseppe Di Domizio, Sergio Forni, Arturo Gatto, Mario Giurini, Massimo Massei, Gino Onofri, Nazario Sauro Onofri, Leda Orlandi in Bastia, Armando Quadri, Anselmo Ramazzotti, Giosuè Sabbadini, Pietro Zanelli, Umberto Zanetti, Alberto Zoboli e Luigi Zoboli.

Per molti giorni è detenuto nella caserma fascista di via Borgolocchi, dove è sottoposto a interrogatori e torture che non lo indurranno a tradire i compagni di lotta. Nel verbale dell'interrogatorio - «Il Masia è un uomo d'azione e di intelligenza aperta», vi si legge, tra l'altro - è detto testualmente: «Nell'interrogatorio non ha fatto nessuna dichiarazione, ma si è limitato a vaghi accenni sui princìpi ideologici del Partito d'Azione. Ha tentato, nell'ufficio politico, di avvelenarsi. Ha tentato il suicidio gettandosi da una finestra di un secondo piano pur essendo sorvegliato ed ammanettato». Il 19 settembre 1944 è portato in aula in barella, per le ferite riportate nel secondo tentato suicidio. Il Tribunale militare straordinario di guerra lo condanna a morte con altri 7 compagni «mediante fucilazione al petto». La sentenza sarà eseguita il 23 settembre 1944 al poligono di tiro di Bologna. Tra il 20 e il 23 settembre era stato intanto incarcerato a San Giovanni in Monte, con matricola 11909, dove era giunto scortato da «capitano Tartarotti», per ordine della «polizia repubblicana», a disposizione del «Tribunale straordinario di guerra».

Per onorarne la memoria il suo nome fu dato all'8a brigata GL di Bologna e a una divisione GL dell'Oltrepo pavese.

Riconosciuto partigiano dall'apposita Commissione regionale, con ciclo operativo dal 9 settembre 1943 al 23 settembre 1944.

Le città di Bologna e di Como gli hanno dedicato una strada.

Gli è stata conferita la medaglia dʼoro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione: «Entrava tra i primi nelle forze della resistenza della sua zona diventandone lʼanimatore. Incurante dei gravi pericoli che la sua multiforme attività comportava, si adoperava in tenace e feconda opera di reclutamento di partigiani e mediante brillanti colpi di mano procurava loro abbondanza di armi, munizioni e vettovaglie sottratte allʼavversario. Scoperto, catturato e sottoposto a gravi sevizie, si rifiutava di rivelare qualunque notizia che potesse tradire i commilitoni ed il reparto di appartenenza, tentando addirittura il suicidio nel timore di tradirsi sotto le torture. Condannato a morte, rifiutava di chiedere la grazia, come propostogli e affrontava con sereno stoicismo il plotone di esecuzione. Luminoso esempio di nobile animo di combattente e patriota. Bologna, 23 settembre 1944».


FONTI PRINCIPALI:

- Dizionario biografico degli Antifascisti di Bologna e provincia

- Registri matricola del carcere di San Giovanni in Monte

Rif: FUCILATO AL POLIGONO-4267



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