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I TESTIMONI, LA MEMORIA
testimonianza di

Forni Sergio

Nato il 18 dicembre 1915 a Bologna (BO)
Residente a Bologna (BO)
Arrestato il 3 settembre 1944 a Bologna (BO)
Luoghi di detenzione: carcere di Bologna, Bolzano
Deportato a Mauthausen da Bolzano il 20 novembre 1944
È sopravvissuto

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nessun numero assegnato

Testimonianza di Sergio Forni, da: Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Bologna, ISB, 1970, vol. III, p. 687

Aderii al Partito d'azione agli inizi del 1944, dopo aveve avuto contatti con Armando Quadri e Mario Bastia. Nella mia casa di via Fondazza venivano le staffette del Partito d'azione e di altri partiti cui trasmettevo le istruzioni che ricevevo. Onofri si interessava dei rifornimenti alle formazioni partigiane e dei contatti con gli alleati. Più volte partecipai anche a riunioni del gruppo dirigente del partito d'azione in varie sedi landestine della città. Avevo rapporti anche col CUMER tramite il maggiore Tinti e il capitano Scarani.

Nelle prime ore del pomeriggio del 3 settembre 1944 ricevetti una telefonata da Paolo Kessler, che era un membro del nostro gruppo e che fu anche mio compagno di studi, ma che in effetti, come risultò nella stessa giornata, era una spia al servizio dei fascisti, nella quale il Kessler mi annunciava l'arresto di Masia e mi invitava ad andare subito a porta Mazzini. Io avvertii Bernardi, un altro membro del nostro gruppo, e insieme andammo all'appuntamento, ma qui fummo bloccati da fascisti in borghese armati di mitra. Il Kessler passò subito dalla loro parte. Fummo portati nella sede del comando del capitano Serrantini, in via Mengoli, per un primo interrogatorio con minacce, ma senza violenze e poi fummo mandati nella caserma delle brigate nere, in via Borgolocchi, dove trovai Quadri, Sabbadini, Bassanelli, Onofri e Massei, molti del nostro gruppo.  Sempre nella stessa caserma, ma io non li vidi, c'erano gli altri compagni che poi furono processati con me e cioè Masia, Zoboli, Gatto, Giurini, Caselli, Zanelli, Di Domizio, Ramazzotti, Cane, Canova e Orlandi. Nella caserma subimmo interrogatori violenti. A me chiesero fra una bastonatura e l'altra, chi faceva parte del gruppo azionista, se era vero che noi avevamo autorizzato i bombardamenti di Bologna, chi erano i nostri compagni in altre città, che incarico avevo nel partito e altre cose del genere. Io non facevo che negare, negare e basta: era l'unico modo per sperare di salvarsi. Poi arrestarono anche mia moglie e la misero a confronto con me: la cosa andò bene e la rilasciarono dopo due giorni.

Circa dieci giorni dopo fui trasferito nel carcere di San Giovanni in Monte e lì mi trovai unito a quasi tutti gli altri compagni che tenevano in cella a parte. Arrestarono anche la moglie di Bastia essendo il marito Mario, che poi morirà nella battaglia dell'Università il 20 ottobre 1944, riuscito a sottrarsi all'arresto. Fummo subito inviati a processo, senza riguardo per alcuna formalità giuridica. Il processo si svolse nella sede della Corte d'Assise, nel Palazzo di Giustizia di Bologna. Il processo-farsa iniziò il mattino del 19 settembre e durò meno di un'ora. Il Tribunale Militare straordinario di guerra era presieduto dal generale Magaldi. L'accusa a nostro carico (intelligenza col nemico, favoreggiamento bellico, spionaggio politico e militare, cospirazione politica mediante associazione, assistenza a bande armate di fuori legge, ecc.) comportava, naturalmente, la pena di morte. A difenderci, anzi a fingere di difenderci (non certo per loro colpa, s'intende) c'erano gli avvocati Cappello, Conte, Bouttiau, Stoppato e Vandelli. Io ero «difeso» dall'avv. Stoppato. L'avv. Vandelli cercò di dire due parole, citò Beccaria, ma fu subito zittito e quasi finì dentro. L'interrogatorio fu una ignobile farsa. Non ci lasciarono nemmeno il tempo di dire il nostro nome e cognome. Subito ci interrompevano: nemmeno il tempo di dire una parola di più. Masia, che era molto malmesso poiché aveva cercato di fuggire buttandosi dalla finestra della palazzina del comando fascista di via Mengoli, tentò a viva forza di dire qualche parola. Disse che ciò che faceva era nell'interesse dell'Italia, che ne era fiero, ma non potè andare oltre: fu ancora zittito. Anche l'accusatore parlò poco: disse che eravamo degli intellettuali che volevamo sovvertire lo Stato, fece un po' di retorica e concluse chiedendo per tutti la condanna a morte. In camera di consiglio rimasero appena una decina di minuti il che ci fece pensare che le condanne fossero state stabilite in precedenza. Il Presidente lesse la sentenza. A morte furono condannati Masia, Quadri, Luigi Zoboli, Giurini, Gatto, Caselli (fucilazione al petto); Bassanelli e Zanelli (fucilazione alla schiena). Le altre condanne furono le seguenti: Sabbadini 30 anni, Cane 11 anni, Ramazzotti 9 anni, Di Domizio 8 anni, Canova 6 anni, Onofri 6 anni, Alberto Zoboli 7 anni, Zanetti 2 anni, Leda Bastia 10 mesi. Assolto fu Giorgio Chierici. Io fui condannato a 9 anni di reclusione.

Tornammo in carcere. Il 23 settembre, all'alba, venne una squadra di fascisti comandata da Tartarotti ed io vidi sfilare di sotto, nel cortile, i compagni che andavano a morire. Furono fucilati al Poligono di tiro nel primo mattino dello stesso sabato 23 settembre. Il destino dei non fucilati non fu molto diverso. Sabbadini morì di stenti nel lager di Melk. Io fui spedito a Bolzano, in un lager, in cella di rigore, insieme ad Onofri, Ramazzotti, Canova e Cane poiché eravamo dei condannati. Poi fummo rinchiusi in un vagone ferroviario ricolmo di deportati e sigillato e inviati nel lager di Mauthausen. Onofri morì il 9 febbraio 1945, nel lager di Gusen II, dove fu trasferito dopo Mauthausen. Anche gli altri compagni finirono tutti la loro vita in lager tedeschi. Io sono il solo sopravvissuto di questa tragedia. A Mauthausen ero naturalmente classificato come politico e avevo il triangolo rosso. Nei lager i politici erano classificati secondo la nazionalità e in teoria dovevano essere tutti uguali. Ma a Mauthausen gli italiani erano quelli trattati peggio.

Restai nel lager fino al 5 maggio 1945, cioè fino a quando arrivarono gli americani. Le mie condizioni erano disastrose. Sembrava impossibile che potessi vivere: alla liberazione pesavo  42 chili. Negli ultimi 15 giorni non ci fu dato più nulla da mangiare e nonostante questo fino a due giorni dalla liberazione fui costretto a lavorare tirando la carriola piena di ghiaia nelle gallerie dove i tedeschi volevano nascondere le macchine delle fabbriche «Steyr» e «Messerschmitt». Molti morirono di fame negli ultimi giorni, o schiantati dalla fatica impossibile. Altri morirono subito dopo la liberazione perché mangiarono troppo in fretta: il sangue era diventato acquoso e allora si gonfiavano e scoppiavano. Tornai a Bologna, con l'aiuto della Croce Rossa, verso la fine del giugno 1945 dopo un periodo di riposo e cura a Schlantengeld, nei pressi di Linz.


Rif: I TESTIMONI, LA MEMORIA-2110



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