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DEPORTATO POLITICO

BENINI TERESA

Nata il 19 maggio 1893 a Imola (BO)
Residente a Bologna (BO)
Arrestata il 24 febbraio 1944 a Bologna (BO)
Luoghi di detenzione: carcere di Bologna, campo di Fossoli, Verona
Deportata a Ravensbrueck
Non è sopravvissuta alla deportazione
nessun numero assegnato

Benini Teresa, nata il 19 maggio 1893 a Imola (BO); residente a Bologna, in via Rimesse n. 25. Coniugata con Adelchi Baroncini. Madre di Jole, Nella e Angelina.

Il marito Adelchi dopo essersi trasferito con la famiglia da Imola a Bologna, si era impiegato come operaio meccanico alla O.A.R.E., Officina Automobilistica Riparazioni Esercito. Di idee socialiste fin dal 1920, dall’autunno 1943 aveva iniziato a collaborare anche con alcuni attivisti comunisti, in particolare con i fratelli Umberto e Vittorio Ghini, che coordinavano anche l’attività di stamperia e di staffette in cui spontaneamente avevano voluto impegnarsi con grande entusiasmo le tre figlie. L’abitazione della famiglia in via Rimesse si era così trasformata in un centro stampa segreto di pubblicazioni e volantini politici antifascisti, dove le sorelle Baroncini componevano o copiavano con la macchina da scrivere articoli e volantini che venivano poi ciclostilate o stampate altrove. dove era in contatto con i componenti di un comitato antifascista clandestino.

Racconteranno Nella e Angelina in una testimonianza rilasciata insieme nel 1976: «Noi facevamo lavoro di stampa – ricorda Nella - “L’Unità” mi ricordo che in principio non conoscevamo neanche cos’era. Poi c’era “Noi donne”, cominciava allora, coi Gruppi di difesa della donna, e “La lotta”, settimanale bolognese. Battevamo a macchina dei pezzi che i compagni preparavano da mettere, per esempio, sulla “Unità”». Aggiunge Angelina: «Andavamo anche a portare del materiale di stampa nelle basi intorno: Medicina, Imola, Ponte Ronca», spingendosi talvolta anche a Casalecchio.1

Proprio per non mettere in pericolo i famigliari e l’attività segreta svolta in casa, Adelchi aveva cercato di non attirare troppo l’attenzione nei contatti che aveva con il comitato antifascista clandestino attivo alla O.A.R.E dove lavorava, ma inutilmente. A causa della spiata di un infiltrato in quell’organismo il 24 febbraio 1944 Adelchi è arrestato dalla Gestapo al suo arrivo in officina insieme ad altri operai, tra i quali anche Antonio Celin e Armando Mazzoli, tutti accusati di sabotare la produzione bellica. Dapprima fu obbligato ad accompagnare gli agenti tedeschi ad assistere a perquisizioni ed arresti di altri presunti membri del gruppo antifascista - saranno una ventina in tutto -, poi fu condotto dai militi SS alla sua abitazione.

«Quella mattina – racconterà Nella - per combinazione, ci trovavamo in casa tutte e quattro, noi donne. Erano le 8 e tre quarti di mattina, del 24 febbraio; le date me le ricordo bene. Io stavo mangiando il caffelatte e avevo già il paletot addosso per andare in ufficio. La Jole aveva l’azienda sfollata in un paese qui intorno, e di solito a quell’ora lì era già via: capitò che quella mattina non andava a lavorare ed era a casa. Prosegue Angelina: “Io ero ancora a letto perché in quel periodo ero rimasta a casa da lavorare. Così di noi tre sorelle ero quella che lavorava più di tutte a battere a macchina, mentre loro di giorno erano fuori e battevano a macchina solo alla sera. A un tratto suonarono, e come [Nella ha] aperto la porta, sentii la parola: “Perquisizione!” (…) D’istinto, mi sono buttata giù dal letto in fretta, ho preso il pacco di manifestini che c’era sulla credenza e me li sono infilati nella camicia da notte. Ma loro hanno visto la mossa”. Ancora Nella: “Fui io ad andare a aprire la porta. Come vidi mio padre in mezzo a due SS, son corsa in casa, naturalmente: però stavamo al primo piano e non c’erano molte scale da fare».2

Le sorelle ricordano l’ingresso in casa di due SS accompagnate da un agente in borghese che parla italiano, e cominciano a buttare tutto all’aria; cercano soprattutto dei ciclostili, e picchiano Adelchi davanti ai famigliari per farsi dare indicazioni. Troveranno tre macchine da scrivere, un pacco di manifestini e della carta bianca. Inoltre una carta di identità già scolorinata intestata a Vittorio Ghini, che i tedeschi riconoscono. Altri documenti e tessere false nascoste dietro un mobile non vengono scoperte.

Tutti i cinque membri della famiglia Baroncini sono tratti in arresto e portati al comando bolognese della Gestapo, in quel momento ancora in viale Risorgimento, dove sono sottoposti ad un primo sommario interrogatorio (così come gli altri arrestati, poi in gran parte rilasciati). Nella, Jole e la madre sono condotti poco dopo al carcere cittadino di San Giovanni in Monte, mentre Adelchi e la figlia Lina, che tenta di addossarsi la colpa anche per le altre sorelle, rimangono nelle celle del comando SS, dove per quasi un mese saranno sottoposti ad ulteriori interrogatori conditi da pestaggi e torture, soprattutto per Adelchi.

Ricorderà Angelina: «Cominciarono gli interrogatori, giorno e notte. Un po’ mio padre, un po’ io, poi gli altri. Eravamo nelle cantine, isolati, e ci venivano a prendere poco alla volta. Dalle cantine dove eravamo, si sentiva chi venivano a prendere e chi ritornava. Una volta che mio padre lo torturarono per tutta la notte, e quello che gli fecero lo saprà soltanto lui, io ne so solo un pochino, e lo buttarono giù, a ruzzoloni, io lo sentii, mentre cadeva a ruzzoloni, e si lamentava; io ero nella cantina chiusa, non vedevo niente, però sentivo: la voce era alterata, non era la sua, ma io sapevo che era lui. E loro mi vennero ad aprire la cantina, mi presero e mi portarono davanti a lui; fra le altre cantine avevano un bugigattolo di punizione, piccolo che non si poteva starci né sdraiati per lungo né dritti (...): era là buttato in terra che si lamentava, ma non conosceva, non vedeva neanche, perché aveva la faccia tumefatta, e tutto il corpo. Lassù l’avevano denudato (…) l’avevano legato alle mani e ai piedi e lo tiravano su e giù con una carrucola; su e poi giù di colpo, e lo picchiavano sui genitali».3 Anche Angelina è sottoposta a percosse durante gli interrogatori, con botte sulle gambe e sulla schiena. Tenta di addossarsi la responsabilità dell’attività clandestina nella speranza di far scagionare almeno la madre, ma invano.

Il 22 marzo 1944 anche Adelchi e Angelina sono consegnati al carcere di San Giovanni in Monte, dove Adelchi è registrato con la matricola 10091 del settore maschile, Angelina con la matricola 1970 del settore femminile, gestito dalle suore, dove però rimarrà isolata senza incontrare mai la madre e le altre due sorelle.

La famiglia si riunirà di nuovo insieme solo il 6 maggio 1944, in occasione del trasferimento in camion al campo di concentramento e transito (Durchgangslager, DuLag) di Fossoli di Carpi, insieme ad un gruppo di altri detenuti politici, tra i quali alcuni degli operai dell’O.A.R.E. In quel campo rimarranno quasi tre mesi.

Continua il racconto di Nella: «Non era un campo di lavoro e di solito non si faceva niente; delle volte prendevano noi ragazze a pulire le camere delle SS , o a lavorare in cucina. Io sono stata in cucina, Le camere delle SS erano fuori della rete, ma in una baracca come le nostre. Gli uomini facevano altri lavori: c’erano, per esempio, gruppi di muratori. Venivamo dal carcere, e ci sembrava di star meglio: un po' perché non c’era più il pericolo degli interrogatori, che erano finiti, un po' perché stavamo all’aperto e si era in molti. Si cominciarono a fare dei gruppi, e anche se il reparto uomini e il reparto donne erano separati, alla sera ci si trovava alla rete». Aggiunge Angelina: «Nel campo siamo state abbastanza bene. Lì arrivavano i pacchi, da fuori, e nel nostro gruppo quello che arrivava per uno era per tutti».4

Ma nei primi giorni di agosto la famiglia dovrà di nuovo dividersi, in occasione del trasferimento della funzione di campo di transito da Fossoli a Bolzano-Gries, quando nel campo emiliano avvengono le ultime selezioni.

Adelchi sarà trasferito al campo di transito sud-tirolese, da dove il 5 agosto sarà aggregato al primo trasporto che dal nuovo DuLag raggiungerà Mauthausen. Assegnato in seguito al sottocampo di Gusen, morirà il 3 gennaio 1945 nel Erholungsheim ("convalescenziario") del castello di Hartheim, presso Linz, che fungeva da luogo di eliminazione dei detenuti di Mauthausen e Dachau ormai inabili al lavoro attraverso camera gas o iniezione, nell'ambito della operazione segreta denominata in codice «14f13».

Le quattro donne Baroncini sono invece trasferite con altre prigioniere a Verona, e tenute una giornata in un campo di transito ricavato negli edifici della locale Manifattura Tabacchi, vicina alla stazione.

Angelina ricorderà: «Partimmo [da Fossoli] in camion aperti, noi quattro donne, e c’erano anche delle famiglie di ebrei, misti ebrei, madri con figli. Quando poi siamo arrivati non so se a Verona, di là dal Po, comunque, ci han messi in una caserma, e lì è avvenuto lo smistamento. Noi siamo rimaste sempre assieme (mentre gli ebrei li han separati: facevano il conto di chi era ebreo, di chi era misto ebreo, e i figli li han messi da una parte e le madri da un’altra. Erano una tragedia queste separazioni di madri e bambini, ragazzi».5

Il 2 agosto, insieme a 19 donne ebree o miste-ebree - tra le quali Giorgetta Bellak (ascolta sua testimonianza) e Fausta Finzi (ascolta sua testimonianza) - avviene la partenza in treno per il lager femminile di Ravensbrueck, che verrà raggiunto il giorno 6. Il viaggio avviene sempre nello stesso vagone, fino ad arrivare a destinazione, sul binario che terminava davanti al campo. La prima cosa a colpire la loro attenzione sono i balconi fioriti delle casette che davanti al campo sono abitate dalle “auserine” (termine italianizzato di Aufsehrin, ovvero guardiana) che le induce a credere di essere arrivate in un posto non poi così male. All’ingresso nel campo la realtà appare in tutta la sua drammaticità. Sono inizialmente rinchiuse nei locali delle docce, dalle cui finestre iniziano a vedere le file per il rancio composte da prigioniere magrissime, come “cadaveri ambulanti”. Il mattino successivo avviene la visita medica, poi vengono loro distribuiti degli abiti civili usati, con misure a caso, e scarpe scompagnate. Dopo l’assegnazione della matricola, che per Teresa Benini è il numero 49559, sono portate ai blocchi di quarantena, dove rimangono in ozio per una ventina di giorni. Infine la destinazione definitiva in baracca, la numero 14, rimanendo per fortuna tutte insieme. I letti sono castelli a tre piani, e per ogni piazza dovevano dormire almeno in due, con pagliericci molto sottili.

Dal 26 agosto iniziano gli impieghi di lavoro, in genere all’aperto, in lavori di sterro, di pavimentazione stradale o in mansioni forestali, a tagliar legna, dove spesso Angelina riesce a lavorare in squadra con Nella, mentre la madre è destinata a lavori artigianali in baracca.

Con l’arrivo dell’inverno iniziano ad ammalarsi a turno. La prima è Nella, che rimane in infermeria otto giorni, poi tocca ad Angelina, per sospetto tifo, quindi a metà gennaio alla madre. Ricorda Angelina: «Mentre noi andavamo fuori a lavorare, la mamma rimaneva dentro a far la maglia. In molte baracche c’eran dei gruppetti di queste tricoteuse. Faceva ginocchiere, calze, maglie per le auserine; qualche volta riusciva anche a fare qualcosa per sé. (…) Ha lavorato in baracca, fino a metà gennaio, finché non cel’ha fatta più. Aveva una gran dissenteria. Mi ricordo che gli ultimi tempi alla mattina all’appello non si reggeva più in piedi: fuori, col freddo, non riusciva neanche a respirare: aveva un respiro rauco, come un rantolo. Gli ultimi giorni riuscivamo a tenerla seduta all’appello, anche se era ben difficile stare negli ultimi posti con un panchetto: lei stava seduta e si alzava in piedi quando passavano a contare, e noi con un grande affanno speravamo che non se ne accorgessero. (…) Nell’infermeria, forse la [baracca] 8, ma non ricordo, si mise nel letto e le prime sere riuscivamo a passare sotto al reticolato, andavamo dalle finestre e lei veniva qualche volta alla finestra scendendo dal letto e ci dava la camicia oppure qualcos’altro da lavare. Noi le davamo magari qualche cosa comprata al mercato nero. Poi non riuscì più a venire alla finestra. L’ultima sera riuscimmo a chiedere alla dottoressa: ‘Ma cos’ha? Proprio non si può fare niente?’ ‘Uno dei polmoni è secco, prosciugato’. Forse le avevano fatto i raggi».

Prosegue Nella: «Quella sera siamo riuscite ad andar dentro a vederla. Alcune russe ci fecero segno di entrare. (…) Nostra madre era in una cuccia lurida nei castelli della fila di mezzo, lontana dalle finestre: le baracche delle infermerie eran meglio delle altre. Arrivammo lì tutte e due.” (…) “Ebbe un dolore fortissimo, in un momento, che poi le passò. E parlava, parlava, parlava, e in fretta, a scatti, mentre non ha mai parlato molto. Ma ci riconosceva. (…) La mattina dopo, mi ricordo, siamo di nuovo andate dentro. Era morta, ma era ancora nel letto, distesa. L’avevano coperta, le avevano chiuso gli occhi. Noi l’abbiamo scoperta per guardarla. Aveva il bricco del caffè stretto sul petto, come per paura che glielo portassero via. Era un pochino rattrappita. Dopo non l’abbiamo più vista. Le morte le ammucchiavano, denudate, nel Waschraum [lavatoio], le buttavano su un carretto e le portavano via: quel carretto, carico, che andava verso il forno crematorio, lo vedevamo sempre passare. Aveva cinquantun anni, perché era del ‘93. Sarà stato il 26 gennaio [1945]».6

Anche per la figlia Jole l’inverno risulterà fatale, ed entrata in infermeria non ne uscirà più, se non per essere condotta nell’area del cosiddetto Jugendlager, dove da poco tempo sorgeva la camera a gas, in cui verrà fatta entrare il 4 marzo, con una diagnosi di sospetta tubercolosi.

Sopravviveranno alla deportazione solo Nella e Angelina, che riusciranno a ritrovarsi a Bologna solo alla fine del 1945. Adelchi Baroncini era deceduto il 3 gennaio 1945 nel castello di Hartheim, utilizzato come luogo di sterminio dei prigionieri di Mauthausen divenuti incapaci di lavorare.

Teresa Benini è stata riconosciuta dalla apposita Commissione regionale partigiana nella 7a brigata Garibaldi GAP Gianni, con ciclo operativo dal 9 settembre 1943 al 26 gennaio 1945.

Il 10 gennaio 2020 una "pietra d'inciampo" per ognuno dei cinque componenti la famiglia Baroncini è stata posta davanti all'ingresso della residenza di Via Rimesse n. 25. Vedi pagina del Comune di Bologna: http://www.comune.bologna.it/pietre-inciampo

ANED – Bologna ha realizzato nel 2019 una mostra itinerante dal titolo “Non era giusto non fare niente” La resistenza della famiglia Baroncini. Mostra sulla deportazione femminile, curata da Ambra Laurenzi, di cui è stato realizzato anche un catalogo a stampa. Video della presentazione: https://www.youtube.com/watch?v=c4tg3FFDm9c

ANED – Bologna ha realizzato nel 2020 un video dal titolo “Memoria e Libertà. La famiglia Baroncini”: https://www.youtube.com/watch?v=6NOeMg5cMfk

NOTE:

1 - Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane. Giulio Einaudi ed., Torino 1978, (Lina Baroncini Roveri, Nella Baroncini Poli, pp. 235-282) p. 240

2 - Ivi, pp. 241-242

3 - Ivi, p. 243

4 - Ivi, p. 246

5 - Ivi, p. 248

6 - Ivi, p. 260-261


FONTI A STAMPA E ARCHIVISTICHE:

– Mantelli-Tranfaglia, Il libro dei deportati, vol. I, ad nomen

– Dizionario biografico degli Antifascisti di Bologna e provincia, ad nomen

– Registri matricola del carcere di San Giovanni in Monte


Rif: DEPORTATO POLITICO-2024



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