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DEPORTATO POLITICO

BARONCINI ANGELINA

Nata il 20 luglio 1923 a Bologna (BO)
Residente a Bologna (BO)
Arrestata il 24 febbraio 1944 a Bologna (BO)
Luoghi di detenzione: carcere di Bologna, campo di Fossoli, Verona
Deportata a Ravensbrueck
È sopravvissuta alla deportazione
nessun numero assegnato

Baroncini Angelina, detta Lina, da Adelchi e Teresa Benini, nata il 20 luglio 1923 a Bologna; lì residente, in via Rimesse n. 25. Sorella di Jole e Nella. Dopo le classi elementari aveva cominciato le Magistrali inferiori, poi si era impiegata.

Il padre Adelchi dopo essersi trasferito con la famiglia da Imola a Bologna, si era impiegato come operaio meccanico alla O.A.R.E., Officina Automobilistica Riparazioni Esercito. Di idee socialiste fin dal 1920, dall’autunno 1943 aveva iniziato a collaborare anche con alcuni attivisti comunisti, in particolare con i fratelli Umberto e Vittorio Ghini, che coordinavano anche l’attività di stamperia e di staffette in cui spontaneamente avevano voluto impegnarsi con grande entusiasmo le tre figlie. L’abitazione della famiglia in via Rimesse si era così trasformata in un centro stampa segreto di pubblicazioni e volantini politici antifascisti, dove le sorelle Baroncini componevano o copiavano con la macchina da scrivere articoli e volantini che venivano poi ciclostilate o stampate altrove. dove era in contatto con i componenti di un comitato antifascista clandestino.

Racconteranno Angelina e Nella in una testimonianza rilasciata insieme nel 1976: «Noi facevamo lavoro di stampa – ricorda Nella - “L’Unità” mi ricordo che in principio non conoscevamo neanche cos’era. Poi c’era ‘Noi donne’, cominciava allora, coi Gruppi di difesa della donna, e “La lotta”, settimanale bolognese. Battevamo a macchina dei pezzi che i compagni preparavano da mettere, per esempio, sulla “Unità”». Aggiunge Angelina: «Andavamo anche a portare del materiale di stampa nelle basi intorno: Medicina, Imola, Ponte Ronca», spingendosi talvolta anche a Casalecchio.1

Proprio per non mettere in pericolo i famigliari e l’attività segreta svolta in casa, Adelchi aveva cercato di non attirare troppo l’attenzione nei contatti che aveva con il comitato antifascista clandestino attivo alla O.A.R.E dove lavorava, ma inutilmente. A causa della spiata di un infiltrato in quell’organismo il 24 febbraio 1944 Adelchi è arrestato dalla Gestapo al suo arrivo in officina insieme ad altri operai, tra i quali anche Antonio Celin e Armando Mazzoli, tutti accusati di sabotare la produzione bellica. Dapprima fu obbligato ad accompagnare gli agenti tedeschi ad assistere a perquisizioni ed arresti di altri presunti membri del gruppo antifascista - saranno una ventina in tutto -, poi fu condotto dai militi SS alla sua abitazione.

«Quella mattina – racconterà Nella - per combinazione, ci trovavamo in casa tutte e quattro, noi donne. Erano le 8 e tre quarti di mattina, del 24 febbraio; le date me le ricordo bene. Io stavo mangiando il caffelatte e avevo già il paletot addosso per andare in ufficio. La Jole aveva l’azienda sfollata in un paese qui intorno, e di solito a quell’ora lì era già via: capitò che quella mattina non andava a lavorare ed era a casa». Prosegue Angelina: «Io ero ancora a letto perché in quel periodo ero rimasta a casa da lavorare. Così di noi tre sorelle ero quella che lavorava più di tutte a battere a macchina, mentre loro di giorno erano fuori e battevano a macchina solo alla sera. A un tratto suonarono, e come [Nella ha] aperto la porta, sentii la parola: “Perquisizione!” (…) D’istinto, mi sono buttata giù dal letto in fretta, ho preso il pacco di manifestini che c’era sulla credenza e me li sono infilati nella camicia da notte. Ma loro hanno visto la mossa”. Ancora Nella: “Fui io ad andare a aprire la porta. Come vidi mio padre in mezzo a due SS, son corsa in casa, naturalmente: però stavamo al primo piano e non c’erano molte scale da fare».2

Le sorelle ricordano l’ingresso in casa di due SS accompagnate da un agente in borghese che parla italiano, e cominciano a buttare tutto all’aria; cercano soprattutto dei ciclostili, e picchiano Adelchi davanti ai famigliari per farsi dare indicazioni. Troveranno tre macchine da scrivere, un pacco di manifestini e della carta bianca. Inoltre una carta di identità già scolorinata intestata a Vittorio Ghini, che i tedeschi riconoscono. Altri documenti e tessere false nascoste dietro un mobile non vengono scoperte.

Tutti i cinque membri della famiglia Baroncini sono tratti in arresto e portati al comando bolognese della Gestapo, in quel momento ancora in viale Risorgimento, dove sono sottoposti ad un primo sommario interrogatorio (così come gli altri arrestati, poi in gran parte rilasciati). Nella, Jole e la madre sono condotti poco dopo al carcere cittadino di San Giovanni in Monte, mentre Adelchi e la figlia Lina, che tenta di addossarsi la colpa anche per le altre sorelle, rimangono nelle celle del comando SS, dove per quasi un mese saranno sottoposti ad ulteriori interrogatori conditi da pestaggi e torture, soprattutto per Adelchi.

Ricorderà Angelina: «Cominciarono gli interrogatori, giorno e notte. Un po’ mio padre, un po’ io, poi gli altri. Eravamo nelle cantine, isolati, e ci venivano a prendere poco alla volta. Dalle cantine dove eravamo, si sentiva chi venivano a prendere e chi ritornava. Una volta che mio padre lo torturarono per tutta la notte, e quello che gli fecero lo saprà soltanto lui, io ne so solo un pochino, e lo buttarono giù, a ruzzoloni, io lo sentii, mentre cadeva a ruzzoloni, e si lamentava; io ero nella cantina chiusa, non vedevo niente, però sentivo: la voce era alterata, non era la sua, ma io sapevo che era lui. E loro mi vennero ad aprire la cantina, mi presero e mi portarono davanti a lui; fra le altre cantine avevano un bugigattolo di punizione, piccolo che non si poteva starci né sdraiati per lungo né dritti (...): era là buttato in terra che si lamentava, ma non conosceva, non vedeva neanche, perché aveva la faccia tumefatta, e tutto il corpo. Lassù l’avevano denudato (…) l’avevano legato alle mani e ai piedi e lo tiravano su e giù con una carrucola; su e poi giù di colpo, e lo picchiavano sui genitali».3 Anche Angelina è sottoposta a percosse durante gli interrogatori, con botte sulle gambe e sulla schiena. Tenta di addossarsi la responsabilità dell’attività clandestina nella speranza di far scagionare almeno la madre, ma invano.

Il 22 marzo 1944 anche Adelchi e Angelina sono consegnati al carcere di San Giovanni in Monte, dove Adelchi è registrato con la matricola 10091 del settore maschile, Angelina con la matricola 1970 del settore femminile, gestito dalle suore, dove però rimarrà isolata senza incontrare mai la madre e le altre due sorelle.

La famiglia si riunirà di nuovo insieme solo il 6 maggio 1944, in occasione del trasferimento in camion al campo di concentramento e transito (Durchgangslager, DuLag) di Fossoli di Carpi, insieme ad un gruppo di altri detenuti politici, tra i quali alcuni degli operai dell’O.A.R.E. In quel campo rimarranno quasi tre mesi.

Continua il racconto di Nella: «Non era un campo di lavoro e di solito non si faceva niente; delle volte prendevano noi ragazze a pulire le camere delle SS , o a lavorare in cucina. Io sono stata in cucina, Le camere delle SS erano fuori della rete, ma in una baracca come le nostre. Gli uomini facevano altri lavori: c’erano, per esempio, gruppi di muratori. Venivamo dal carcere, e ci sembrava di star meglio: un po' perché non c’era più il pericolo degli interrogatori, che erano finiti, un po' perché stavamo all’aperto e si era in molti. Si cominciarono a fare dei gruppi, e anche se il reparto uomini e il reparto donne erano separati, alla sera ci si trovava alla rete». Aggiunge Angelina: «Nel campo siamo state abbastanza bene. Lì arrivavano i pacchi, da fuori, e nel nostro gruppo quello che arrivava per uno era per tutti».4

Ma nei primi giorni di agosto la famiglia dovrà di nuovo dividersi, in occasione del trasferimento della funzione di campo di transito da Fossoli a Bolzano-Gries, quando nel campo emiliano avvengono le ultime selezioni.

Adelchi sarà trasferito al campo di transito sud-tirolese, da dove il 5 agosto sarà aggregato al primo trasporto che dal nuovo DuLag raggiungerà Mauthausen. Assegnato in seguito al sottocampo di Gusen, morirà il 3 gennaio 1945 nel Erholungsheim ("convalescenziario") del castello di Hartheim, presso Linz, che fungeva da luogo di eliminazione dei detenuti di Mauthausen e Dachau ormai inabili al lavoro attraverso camera gas o iniezione, nell'ambito della operazione segreta denominata in codice «14f13».

Le quattro donne Baroncini sono invece trasferite con altre prigioniere a Verona, e tenute una giornata in un campo di transito ricavato negli edifici della locale Manifattura Tabacchi, vicina alla stazione.

Angelina ricorderà: «Partimmo [da Fossoli] in camion aperti, noi quattro donne, e c’erano anche delle famiglie di ebrei, misti ebrei, madri con figli. Quando poi siamo arrivati non so se a Verona, di là dal Po, comunque, ci han messi in una caserma, e lì è avvenuto lo smistamento. Noi siamo rimaste sempre assieme (mentre gli ebrei li han separati: facevano il conto di chi era ebreo, di chi era misto ebreo, e i figli li han messi da una parte e le madri da un’altra. Erano una tragedia queste separazioni di madri e bambini, ragazzi».5

Il 2 agosto, insieme a 19 donne ebree o miste-ebree - tra le quali Giorgetta Bellak (ascolta sua testimonianza) e Fausta Finzi (ascolta sua testimonianza) - esso nel campo la realtà appare in tutta la sua drammaticità. Sono inizialmente rinchiuse nei locali delle docce, dalle cui finestre iniziano a vedere le file per il rancio composte da prigioniere magrissime, come “cadaveri ambulanti”. Il mattino successivo avviene la visita medica, poi vengono loro distribuiti degli abiti civili usati, con misure a caso, e scarpe scompagnate. Dopo l’assegnazione della matricola, che per Angelina è il numero 49552, sono portate ai blocchi di quarantena, dove rimangono in ozio per una ventina di giorni. Infine la destinazione definitiva in baracca, la numero 14, rimanendo per fortuna tutte insieme. I letti sono castelli a tre piani, e per ogni piazza dovevano dormire almeno in due, con pagliericci molto sottili.

Dal 26 agosto iniziano gli impieghi di lavoro, in genere all’aperto, in lavori di sterro, di pavimentazione stradale o in mansioni forestali, a tagliar legna, dove spesso Angelina riesce a lavorare in squadra con Nella, mentre la madre è destinata a lavori di maglieria in baracca.

Con l’arrivo dell’inverno iniziano ad ammalarsi a turno. La prima è Nella, che rimane in infermeria otto giorni, poi tocca ad Angelina, per sospetto tifo, quindi a metà gennaio alla madre, indebolita dal freddo e dalla dissenteria, inizialmente accompagnata a fatica dalle figlie a mettersi in fila per l’appello, prima di crollare definitivamente e morire il 26 gennaio 1945. Anche per Jole l’inverno risulterà fatale, ed entrata in infermeria non ne uscirà più, se non per essere condotta nell’area del cosiddetto Jugendlager, dove dal gennaio 1945 sorgeva la camera a gas, in cui verrà fatta entrare il 4 marzo, con una diagnosi di sospetta tubercolosi.

Mentre Nella rimarrà sempre nel campo principale, con periodi sempre più lunghi in infermeria, Angelina a metà febbraio è selezionata per essere trasferita nel sottocampo di Retzow, presso Rechlin, dove alcune migliaia di prigionieri, in gran parte donne, erano impiegati prevalentemente nei lavori di ampliamento del vicino aeroporto di Laerz. Vi rimane fino al 1° aprile, quando è portata di nuovo a Ravensbruck, ma per rimanervi solo una giornata, senza incontrare Nella, ricevendo però notizie sul probabile invio di Jole allo Jugendlager. Nuova destinazione di Angelina è il piccolo campo di Salzwedel, dove rimane, in condizioni fisiche sempre più malandate, fino all’arrivo dei soldati americani, il 12 aprile 1945.

Ricorda Angelina: «Quella mattina ero rimasta nel mio castello perché non riuscivo neanche ad alzarmi. A un tratto, tutte fuori, tutte a urlare. “Ci sono gli americani!” Non c’era stata battaglia. Il capocampo, il tedesco proprio, ha alzato le mani, si è fatto prendere prigioniero, Pian piano, portata a braccetto, andai anch’io fuori: non riuscivo a respirare, non potevo camminare da sola. Passavano i camion degli americani. Tutte esultavano. A me mancarono tutte le forze, mi misi a sedere per terra. Non mi importava più niente, non mi interessava più niente: mi pareva la fine, per me. Mi misi a piangere».6 In quel momento pesava 35 chili ed era affetta da pleurite bilaterale.

In seguito è condotta dapprima in altre baracche dove si trovano anche prigionieri di guerra italiani, poi il 16 aprile gli americani la fanno ricoverare nell’ospedale cittadino di Salzwedel, dove rimane fino al 22 giugno 1945, con cure adeguate fornite da personale medico tedesco sotto controllo americano. In seguito è condotta in una caserma a Bergen Belsen, vicina all’area dell’ex-campo di concentramento, dove numerosi ex-prigionieri di ogni categoria si trovano in attesa di essere chiamati per uno dei convogli in partenza per il rientro.

Angelina arriverà in Italia in treno attraverso il Brennero. Giunta a Bologna non ha il coraggio di andare subito a casa, che immagina vuota, ma si reca da un conoscente. Poi è ricoverata in un convalescenziario, dove incontra Mario Roveri, anche lui ex-deportato politico, che aveva già conosciuto a Fossoli, e che nel 1948 diventerà suo marito. In quei giorni apprende da una lettera di un ex-deportato a Mauthausen della morte del padre in quel campo. L’unica altra componente della famiglia sopravvissuta, Nella, rientrerà in Italia solo il 13 ottobre, inizialmente ricoverata a Merano, da dove scrive delle lettere a parenti di Bologna e Imola a seguito delle quali due settimane dopo un gruppo di operai della O.A.R.E, già colleghi del padre, si recherà a prenderla in camion per riportarla a Bologna. Angelina e Nella potranno così ritrovarsi.

Angelina è stata riconosciuta dalla apposita Commissione regionale partigiana nella 7a brigata Garibaldi GAP Gianni, con ciclo operativo dall'1 dicembre 1943 alla Liberazione.

Unica sua testimonianza in L. Beccaria Rolfi-A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, 1978.

Il 10 gennaio 2020 una "pietra d'inciampo" per ognuno dei cinque componenti la famiglia Baroncini è stata posta davanti all'ingresso della residenza di Via Rimesse n. 25. Vedi pagina del Comune di Bologna: http://www.comune.bologna.it/pietre-inciampo

ANED – Bologna ha realizzato nel 2019 una mostra itinerante dal titolo “Non era giusto non fare niente” La resistenza della famiglia Baroncini. Mostra sulla deportazione femminile, curata da Ambra Laurenzi, di cui è stato realizzato anche un catalogo a stampa. Video della presentazione: https://www.youtube.com/watch?v=c4tg3FFDm9c

ANED – Bologna ha realizzato nel 2020 un video dal titolo “Memoria e Libertà. La famiglia Baroncini”: https://www.youtube.com/watch?v=6NOeMg5cMfk

NOTE:

1 - Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane. Giulio Einaudi ed., Torino 1978, (Lina Baroncini Roveri, Nella Baroncini Poli, pp. 235-282) p. 240

2 - Ivi, pp. 241-242

3 - Ivi, p. 243

4 - Ivi, p. 246

5 - Ivi, p. 248

6 - Ivi, p. 268


FONTI A STAMPA E ARCHIVISTICHE:

– Mantelli-Tranfaglia, Il libro dei deportati, vol. I, ad nomen

– Dizionario biografico degli Antifascisti di Bologna e provincia, ad nomen

– Registri matricola del carcere di San Giovanni in Monte

– Archivio ANED Bologna, pratiche vitalizio

FONTI DIGITALI:

– ITS Digital Archive, Arolsen Archives:

2.1.4.2, 10009119. Lista degli stranieri nel distretto di Salzwedel; ex-prigionieri ricoverati un ospedale di Salzwedel.

https://collections.arolsen-archives.org/en/document/71045643

https://collections.arolsen-archives.org/en/document/71045663

Guida alla lettura della documentazione in Arolsen Archives


Rif: DEPORTATO POLITICO-2016



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